Nel libro “Il fruscio degli eucalipti” Maria Grazia Zedda scrive di inclusione e disabilità
Cagliaritana, fin da giovanissima emigrata nel Regno Unito, Maria Grazia Zedda, 50 anni, è un’autentica self made woman considerata oggi tra le cento persone disabili più influenti d’Inghilterra. Disabile? Maria Grazia Zedda non sente, è sorda anzi, parzialmente sorda e di lei dice «è esattamente quella che sono».
Supermanager a Londra dove vive, lavora attualmente al progetto di ferrovie ad alta velocità più grande d’Europa dove ricopre l’incarico di senior manager per le Pari opportunità mentre il marito, Ian Sheeler, già produttore alla Bbc e a Sky (anche lui con problemi di udito) ha ideato il programma di e-learning adottato dal Parlamento inglese per comprendere e provare ad abbattere le barriere psicologiche e fisiche vissute dalle persone con disabilità.
Autrice del libro “Il fruscio degli eucalipti” pubblicato a gennaio dalla casa editrice Il maestrale, l’abbiamo intervistata via e mail a Londra dove risiede.
Come è stato crescere con una disabilità sensoriale in una città come Cagliari? Che tipo di supporto hai avuto durante gli studi e in seguito nella ricerca di un lavoro?
«Crescere con la mia sordità ogni tanto mi ha resole cose difficili in quanto ricevere lo stesso trattamento non è proprio sinonimo di uguaglianza. Alla fine del secondo anno di scuola elementare la mia maestra si rifiutò di tenermi in classe dicendo che non aveva tempo per me dato che riteneva avessi troppe necessità. Invece dalla terza elementare, la maestra Angioletta Zoccheddu mi fece semplicemente sedere ai primi banchi e cominciò a usare il rossetto rosso così da aiutarmi nella lettura del labiale. Andò meglio. Alle scuole medie, e in seguito alle superiori, erano pochi i professori che si ricordavano di guardarmi in faccia quando parlavano e questo mi ha sempre reso le cose più difficili. Con il passare degli anni mi sono ribellata in maniera passiva frequentando poco la scuola».
Quali invece le differenze e le similitudini, sia in negativo che in positivo, in termini di supporto alla disabilità, tra Cagliari e le altre città italiane ed estere in cui hai studiato e lavorato?
«L’ignoranza riguardo le metodologie di inclusione sono diffuse e le troviamo dappertutto. Persone con attitudini paternalistiche che ti compatiscono oppure fanno di te un’eroina fin quasi a elevarti a “inspiration porn” , senza motivo, magari solo perché hai un lavoro. Io stessa ci sono passata, quando mi hanno affibbiato l’etichetta di “supermanager” solo perché ho un lavoro di discreta responsabilità».
Restiamo in ambito di formazione e lavoro. Hai studiato e lavorato in diverse città europee e negli Stati Uniti. Sappiamo che per chi nasce in un’isola non è facile pensare di attraversare il mare. da dove nasce la spinta per trasferirti all’estero?
«La spinta iniziale è stata l’incoscienza, la pazzia, la voglia di ribellione di un’adolescente. C’era anche la consapevolezza, come purtroppo nella mia isola, non avrei avuto opportunità di emancipazione sociale e lavorativa. Sapevo, grazie all’esperienza di alcuni familiari che avevano vissuto e lavorato all’estero, che si poteva sfuggire a una cultura soffocante dove le donne e le persone con disabilità sono viste come cittadini di serie B e che all’estero ci si apre la mente. E così è stato. Ma come si dice, tutto il mondo è paese, e con il senno di poi ci si rende conto di come si trovano dappertutto le persone che professano l’uguaglianza ma non sanno metterla in pratica».
Durante gli studi e nel corso della carriera lavorativa, ti sei mai scontrata con i pregiudizi delle altre persone nei confronti della disabilità sensoriale? Ti è capitato di essere sottovalutata o addirittura esclusa/non ammessa perché la scuola/azienda non aveva attuato una corretta politica di inclusione (ad es. materiali non accessibili, personale non preparato)?
« Mi scontro spesso e tutt’ora con questi pregiudizi nei confronti della disabilità, sensoriale e non. Mi è capitato di frequente di essere sottovalutata e anche esclusa per mancanza di politiche di inclusione, soprattutto politiche di attuazione dell’inclusione o a causa di personale non preparato o non sufficientemente consapevole».
Sei cofondatrice di Sister of Frida, una community di donne con disabilità. Come nasce il gruppo e quali ideali vi sono alla base?
« Sisters of Frida è nata spontaneamente quando alcune di noi, donne con disabilità, hanno cominciato a rendersi conto di essere accomunate da problemi legati ad aspetti culturali patriarcali e abilisti della nostra società. Gli ideali alla base di Sisters of Frida sono quelli di sorellanza e alleanza anche con chi non è donna o disabile, per una maggior presa di coscienza delle barriere create da questa cultura che deve essere cambiata per l’inclusione di tutti.
Qual è la situazione attuale, in ambito lavorativo, sul fronte inclusione all’estero?
«Posso parlare solo della situazione nel Regno Unito e forse un po’ degli USA. Dal mio punto di vista la situazione sta migliorando per via dei social e della maggior condivisione dei principi di inclusione e dell’applicazione di leggi più lungimiranti della ’68/99 in Italia (la legge per l’assunzione di persone disabili ndr.), leggi che non vedano i disabili come “quote” ma come parte integrante della società, quindi come cittadini alla pari che, con strumenti e politiche di inclusione, possono dare il loro contributo alla società e non essere relegati a scomode figure che necessitano di assistenza. In tutto il mondo c’è ancora tanta strada da fare».
Secondo te, quanto e perché è importante per la società moderna aprirsi all’inclusione, non solo delle persone con disabilità, ma di tutte quelle categorie che ancora oggi sono vittime di discriminazioni?
«Di fronte a sfide mondiali e nazionali è importante includere tutti, perché ognuno di noi offre una prospettiva unica e che a un’altro potrebbe sfuggire. Le aziende e i governi che hanno sempre lo stesso tipo di persone a indirizzare la rotta, spesso sono vittime di “group-think”, pensieri di gruppo, una visione tipica di chi non è consapevole dei propri privilegi e dà per scontate tante cose. Chi è al di fuori del group think può’ invece offrire soluzioni e prospettive che non sono state esplorate prima. Se guardiamo alle politiche mondiali e nazionali sul piano della protezione del nostro pianeta, dell’economia, della gestione della pandemia, di potenziali conflitti, spesso chi non viene ascoltato ed è tradizionalmente escluso, può offrire soluzioni uniche. Come dice il famoso proverbio Sudafricano “Ubuntu” se vuoi arrivare a una mèta in fretta, vai da solo, ma se vuoi arrivare lontano, vai con gli altri, insieme».
Hai scelto di raccontare la tua esperienza di donna sorda nel libro “Il fruscio degli eucalipti”: nella sinossi viene definito “una lettera d’amore alla bellezza dell’imperfezione”. Qual è stato il tuo percorso di donna con disabilità sensoriale verso l’accettazione e la consapevolezza? Chi o cosa hai avuto come fonte di ispirazione?
«Il mio percorso è nel libro. Il raggiungimento dell’accettazione e della consapevolezza è giunto dopo molti percorsi dolorosi e molti errori. Ma credo che la vita ci dia le lezioni di cui abbiamo bisogno e da cui dobbiamo assolutamente trarre degli insegnamenti. La mia fonte di ispirazione sono stati i colleghi e le college con disabilità che ho conosciuto sul lavoro perché mi hanno insegnato come la perfezione non esista e che dovevo smetterla di paragonarmi a chi aveva avuto più di me. I miei studi universitari di sociologia mi hanno insegnato che la società spesso si comporta come un gregge ma che abbiamo sempre l’opportunità di capire noi stessi e fare scelte coerenti anziché privilegiare il mainstream. È molto importante capire l’origine culturale, sociale e politica della perfezione e dei canoni di bellezza fisica tradizionali, I parametri ridicoli imposti dalle nostre culture che continuano a promulgare certi miti (tipo il Sogno Americano). In realtà, per arrivare a una partecipazione egualitaria degli esseri umani nel mondo, ci vogliono politiche e leggi pensate per chi non è tutelato, per chi non può difendersi e non vuole essere vittima.
Sei nella top 100 influencer della disabilità in UK. Qual è stata la scintilla che ha acceso in te la voglia di metterti in gioco? Cosa consiglieresti alle giovani donne con disabilità sul fronte personale e occupazionale?
«La scintilla sono state le mie figlie, due adolescenti che (per quanto lo neghino) sono molto attente a quello che fa la loro mamma. Sono anche io un modello di ruolo e fa parte della mia responsabilità di mamma dimostrare che è importante darsi da fare e ottenere dei riconoscimenti quando questi sono meritati. Questi riconoscimenti andranno a ispirare chi si sente escluso ma si può comunque rivedere in te».
Roberta Gatto