Invito al Desiderio – Tennis Addio
Il desiderio si sgretola come le mie ossa. La pallina e la racchetta sono ferme sul pavimento del garage. Io me ne vado, sospesa a pochi palmi da terra. Gli operatori dell’ambulanza si piegano su di me e, con cautela, mi fanno strisciare su un materiale plastico. Poi, azionano un meccanismo e, un po’ alla volta, si forma attorno al mio corpo ancora ripiegato a terra, una superficie rigida che mi contiene fin sotto alle ascelle. Mi sento un pulcino mezzo dentro e mezzo fuori dal guscio, o forse, un crostaceo protetto dalla sua corazza. Pesante come sono diventata, vengo sollevata, posata sulla barella e portata via verso un piccolo ospedale di provincia. E, sempre muovendomi in posizione orizzontale, entro nel Pronto Soccorso dove mi viene comunicata la diagnosi. Spaventata, salgo in ascensore e, finalmente, scivolo dalla barella al letto. Sono in camera in attesa di essere operata. Quando avverrà non si può sapere perché l’ospedale deve ordinare la protesi per me. Il divieto di toccare terra con i piedi, invece, è certo. Senza quel guscio o corazza, con un ago in vena mi sento vulnerabile. Fuori è già buio e io non accendo la luce. La mia anziana compagna di camera russa fragorosamente. Tremo di paura! Trascorro la mia prima notte in ospedale insonne, pensando e soffrendo. All’alba ho preso una decisione. In quel luogo non mi sarei fermata perché la struttura è vecchiotta e probabilmente poco attrezzata. Non sento il parere di nessuno, sblocco il telefono, quel benedettissimo cellulare ed è presto fatto. Chiedo di firmare, insisto! Il chirurgo mi sembra offeso. Saluto medici e infermieri con cordialità e gratitudine perché sono stati gentili e via, di nuovo dentro un’ambulanza verso un grande ospedale specializzato in ortopedia dell’hinterland milanese. Il viaggio continua in orizzontale, su un mezzo dagli ammortizzatori inesistenti che sobbalza quando passa sopra alle irregolarità dell’asfalto, sui tombini sopraelevati e i dossi frequenti. Il rumore, a sirena spenta, è insopportabile. L’ambulanza è poco più di un furgone attrezzato per il trasporto umano, dunque, bisogna aver pazienza. Questo è quanto mi suggerisce il buonsenso. Ma una parte della mente non sempre è disposta ad ascoltarlo, lei ha un suo piano e poco le importa del buonsenso! Sotto la spinta della paura la mente fa il suo gioco e mi porta, sempre in orizzontale, molto, molto lontano. Mi lascio trasportare dalla voce del motore, dai salti delle ruote in uno stato di sonno preonirico dove le immagini si affastellano l’una sull’altra, i ricordi delle letture passate si fondono al presente e, nella mente confusa, s’illumina la sagoma indefinita di una donna dentro a una cesta sostenuta da due soldati a qualche palmo da terra. Quando gli spagnoli occupavano il Ducato di Milano, le povere streghe catturate in Val Sassina venivano imprigionate nel carcere di Lecco in attesa di comparire davanti alla Santa Inquisizione. I carcerieri le custodivano mal volentieri perché la paura di essere fatturati, spesso prevaleva sulla volontà di stuprarle. Quando giungeva l’ordine di condurle presso l’Inquisitore, le trasportavano dalla cella alla carretta dentro una cesta che tenevano ben alzata in aria. Si dice infatti, che i piedi della strega a contatto con la terra ricevano energia dal demonio. Il rumore cessa, si apre il portellone, respiro l’aria fredda e inquinata della periferia milanese. Sono sveglia, lucidissima, attenta a ciò che mi succederà. Il Mondo Galeazziano apre le porte rotolando da una barella all’altra mi trovo in un nuovo Pronto Soccorso, tra le mani di medici e infermieri che compiono sul mio corpo azioni sicure e competenti. Le radiografie sono più accurate, poi gli esami di routine. All’introduzione di una cannula sollevo qualche perplessità, ma l’altro sa il fatto suo e procede. Con questa manovra risolverà il problema idraulico per tutta la durata della mia degenza. Un infermiere apre il canale per la flebo, sono necessari tre tentativi, eppure le vene sono ben visibili come fiumicelli azzurri sulla carta geografica. Sento che qui mi posso fidare, ma ho paura, tanta paura! Le gambe e le braccia tremano, sul petto e sulla schiena compaiono dei puntini rossi, forse ho anche qualche linea di febbre. – Signora soffre di qualche allergia? – Chiede un medico. – No – rispondo – ma ho tanta paura – – E di che cosa ha paura? – – Di morire, di non camminare più o di restare sciancata – Ho risposto candidamente. L’altro aveva sorriso con un rumore lievissimo. Io sono già cieca, se poi divento anche zoppa! Ho pensato. La diagnosi è chiarissima, bisogna operare e installare un’artoprotesi. Queste situazioni vengono trattate come emergenze e operate entro quarantotto ore. La barella riparte, secondo piano, sezione traumi. Il movimento stimola la riflessione. La febbre non c’è, le macchie, come sono venute se ne vanno, il tremito cessa. Questo è un viaggio strano che mi porta a dialogare con la mia pelle, con i muscoli e le ossa. Il dentro e il fuori si mescolano. Fili nuovi si tendono, s’intrecciano, le relazioni s’infittiscono e il corpo è lasciato alle cure di mani sconosciute. Il viaggio va alla ricerca della sua essenza in una direzione ignota.
Claudia Consonni – Collaboratrice Ierfop