Storia di un viaggio indesiderato e di un desiderio irrealizzato
Ho raccolto le mie tre ossa e un ferro e ne ho fatto una zattera.
Era cominciata bene la mattina. Sotto a un cielo terso, l’aria frizzante di marzo si respirava mescolata a un senso di benessere. Il sole di fine inverno già tiepido era un invito a gironzolare per la spesa del fresco nei negozietti con un’amica. Senza lasciarci mancare una sosta in pasticceria, poi rientrare a casa e disporre il cibo sugli scaffali del frigorifero per ordine di scadenza. E ancora, pensare al vicino weekend ben programmato, avere la casa già tutta pulita e un po’ di tennis nel pomeriggio, per me era felicità pura.
Mi alleno nel salone dei garage, uno spazio ampio e ben areato senza colonne e completamente vuoto perché le auto sono sempre chiuse nei loro box. Il pavimento è piano e perfettamente liscio tranne in un punto dove è posizionata la griglia di un tombino che evito accuratamente per non inciampare. Una lunga parete uniforme mi offre la possibilità di lanciare la pallina a mio piacere. Prima di cominciare apro la basculante, un’ondata di aria e luce portano via l’odore dei gas di scarico. È venerdì pomeriggio e, come consuetudine, per qualche ora non c’è movimento di auto. Il silenzio del condominio e della strada circostante mi aiutano a mantenere alta la concentrazione. Per allenarmi, cambio solo le scarpe: i bianchi completi da tennis per il momento sono ancora un miraggio per me. Con la racchetta baby appena acquistata alla Decathlon, provo le palline, una gialla e una fucsia che mi hanno regalato gli allenatori. Morbide come sono, hanno poco rimbalzo, niente a che vedere con le toste e pelosette Babolat, ma si fa quel che si può e, soprattutto, come si può. La prima parte dell’allenamento si svolge nel corridoio perché la distanza tra le pareti è limitata e perdo meno tempo a recuperare la pallina. Poi passo nel salone e lancio contro la parete grande.
I colpi che vanno a vuoto sono tanti, sono solo all’inizio col tennis e l’istruttore mi ha detto che sono lenta. Per migliorare, mi alleno 50 minuti ogni giorno, un centinaio di palline sia di destro sia di sinistro perché sono ambidestra. Purtroppo, nell’ambiente grande, la palla corre lontano e per inseguirla e recuperarla ho bisogno di tempo. Tiro contro al muro, aumentando la distanza che conto a passi. Al primo rimbalzo localizzo la pallina, poi corro dove mi aspetto di sentire il secondo per essere pronta a rilanciarla. Sempre più rapida, sempre più distante. Il tennis lucida i neuroni, spazza via la nebbia, illumina la traccia sonora della pallina in aria e definisce con un tratto di matita lo spazio. Sento i muscoli sciolti e il fiato non mi manca. Concentratissima, mi proietto nella scia di un trillo che attraversa l’aria, sospesa in un lampo a volte giallo a volte fucsia a me invisibile, tutta tesa come sono a localizzare il rimbalzo della pallina. Magnifica sensazione di leggerezza che dura un istante, forse anche meno e poi…..
Il duro pavimento di cemento, le pareti grigie e il profondo silenzio di un venerdì pomeriggio prefestivo.
Scopro che il minimo movimento del bacino e delle gambe mi provoca un dolore lancinante, al limite dello svenimento.
Con grandissima fatica estraggo dalla tasca il cellulare. Prenderà, non prenderà? La batteria è al 2 per cento. Non riesco a chiamare. Per scongiurare una perdita di sensi in questo momento inopportuna, con estrema cautela e compiendo movimenti minimi, appoggio le spalle e la testa sul pavimento. Supina, con una gamba piegata sotto all’altra, non posso trattenere un’onda di paura che risale dal cemento e mi avvolge in una morsa fino a togliermi il fiato.
Se in questo momento un’auto, trovando la basculante aperta, entrasse decisa nel salone, se il conducente non abbassasse gli occhi per ispezionare il pavimento…. E perché lo dovrebbe fare, dal momento che il garage è sempre sgombro? Se urlassi, il rumore del motore e la musica a palla coprirebbero la mia voce. Immagino le ruote avvicinarsi al mio corpo inerte. Se il corpo è immobilizzato a terra, il pensiero si muove, il tempo scorre e io devo approfittare della lucidità che mi resta per fare qualche cosa. Se qualcuno scendesse nel seminterrato per prendere un oggetto qualunque dal suo box o decidesse di uscire in auto per andare a fare la spesa…..
Dal condominio nessun suono, si direbbe disabitato, nessuno cammina sul marciapiede, quando sento la mia vicina sulla scala conversare al telefono con la figlia. Grido il suo nome e sono salva.
L’ambulanza oltrepassa il cancello, percorre lo scivolo e si ferma sulla soglia del salone, proprio sulla linea della basculante.
Due operatori si avvicinano spingendo una barella.
-Signora come si sente?
– Abbastanza bene –
Bene si fa per dire, però, sono viva e lucida, dunque va bene.
Con mia grande sorpresa, gli operatori, prima di sollevarmi e appoggiarmi sulla barella, compiono una manovra strana che io osservo con stupore, mentre un’emozione nuova, mai provata prima, allerta i sensi. Sto partendo, sto lasciando la mia casa, mentre qualcuno chiude la mia porta. Senza ali, senza pinne, mi muovo in orizzontale, sospesa a 80 centimetri da terra. Ogni mio movimento è nelle mani dell’altro. Così, col cuore colmo di paura, comincia un viaggio indesiderato.
Claudia Consonni – Collaboratrice Ierfop
Continua…