Odore di maschio, racconto di violenza subita
Ci sono diversi modi per far violenza a una donna. Per scivolare dalle parole ai gesti, dai complimenti alle toccatine, dagli sguardi impalpabili eppure spessi come muri, ai messaggi, alle e mail fluttuanti nell’aria, alla manipolazione dei figli, ai regali e agli oggetti che s’interpongono tra lui e lei prima di arrivare al sangue. E la realtà, più potente dell’immaginazione non ce li risparmia. Se la donna poi è disabile, allora! Le possibilità si allargano a dismisura. Se è cieca e non può vedere il volto dello sconosciuto, aaah! Quale sensazione di leggerezza deve provare lui, godimento puro e impunibilità certa.
Milano è azzurra, tiepida. Siamo in primavera inoltrata, una mattina verso mezzogiorno di un giorno feriale del 1982. Sono su un autobus sferragliante, la 60 che passa da Cadorna Stazione Nord, si dirige verso il Castello, Piazza Cordusio, lascia di fianco il Duomo, va in San Babila, gira in Largo Augusto e poi via dritto lungo Corso di Porta Vittoria. Siedo su un seggiolino rigido, di quelli senza imbottitura che ti tagliano la schiena a metà. Ho i capelli scuri, sciolti sulle spalle, gli occhi azzurri ben aperti, vigili, attenti. Indosso sandali fucsia, jeans e una camicetta di Sangallo delicata come un fiore di pesco e sono di corporatura sottile. Che cosa dire ancora di me: sono adulta, ho un fidanzato, ma… sono cieca. Occupo un posto singolo, con il finestrino a sinistra e il corridoio a destra. Qui, rispetto ai seggiolini affiancati c’è più spazio per il mio cane guida che sta immobile accovacciato sotto al sedile. A ogni fermata si aprono le porte, l’autobus si svuota e si riempie in continuazione, però, si formano anche spazi vuoti perché non è ancora ora di punta. Le fermate toccano luoghi strategici e così tra i viaggiatori c’è molta varietà. Riconosco bene dalle voci alcune ragazze in fondo alla carrozza, sono studentesse. Alcuni pensionati frettolosi, con le buste della spesa appese al braccio spingono le persone che hanno davanti. Seduta a riposare c’è qualche donna che va a servizio negli appartamenti di lusso perché questa è una zona storica, bella e cara.
Da San Babila a Palazzo di Giustizia c’è un gran movimento di avvocati che dagli studi del centro vanno al Tribunale. Clienti danarosi, faccendieri con la valigetta 24 ore e yuppie, gente che odora di profumi firmati, dopobarba e sigarette. Capita anche d’incontrare un tipo ben diverso di umanità che emana puzza di sudore, di adrenalina, di paura, di aule di tribunale. Sono testimoni, imputati, uomini e donne che frequentano i processi e che in autobus danno sfogo alla rabbia, al dolore, al desiderio di giustizia e qualche volta di vendetta.
Le porte alla mia destra si aprono e si chiudono sbattendo e facendo vibrare il mezzo. Siamo in San Babila, la carrozza si riempie, corpi ammassati, bloccati nel corridoio e qualcuno o qualcosa si appoggia al mio braccio. Lentamente le persone si spostano, scorrono a cercare da sedere, quella pressione tra il braccio e la spalla rimane ferma, fissa, e continua a muoversi. – Come mai? – Chi si sta appoggiando a me in questo modo? – Forse è un oggetto che sporge da una borsa? – Ma non mi vede? – Possibile che non se ne accorga? – Uffah! Mi sta dando fastidio! – E perché non sta fermo? – Che trovi la posizione e si sposti una buona volta! – Sono sveglia, attenta, con gli occhi ben aperti e dunque cerco di comprendere che cosa sta succedendo. La cosa, se è poi una cosa, non si può muovere da sola, ma deve seguire i movimenti di un corpo o di una mano. – Mi sembra impossibile che non mi veda! – Torno a chiedermi. Deve essere di spalle, o magari è uno studente con lo zaino che contiene, in fondo alla sacca, qualche cosa di duro che va proprio ad appoggiare contro di me. Questa è una buona ipotesi. L’oggetto sul fondo dello zaino potrebbe essere un accendino messo in verticale perché il movimento va su e giù. Un altro ragionamento mi suggerisce che a quell’altezza, da seduta, tra la spalla e il braccio, una persona in piedi accanto a me dovrebbe avere, se di schiena, la fine dello zaino o le tasche dei pantaloni quindi, l’accendino potrebbe stare in una tasca, ma se fosse di fronte?… Sicuramente non è una signora, perché mi vedrebbe e si sposterebbe scusandosi. No, è uno studente con lo zaino sulle spalle, un adolescente chiuso nel suo mondo, magari con le cuffiette che non si accorge di niente, né del suo corpo, né, tanto meno, di quello degli altri. Fatta questa considerazione mi sento rassicurata ma, lo sfregamento della cosa contro il pizzo della manica è diventato insopportabile, quasi doloroso, esasperante. Bisogna che attiri la sua attenzione e glielo faccia smettere! Però non sono sicura che sia un accendino, mi sembra un oggetto più grande. Un pacchetto di sigarette non è, perché dovrebbe essere più morbido e io sento qualche cosa di duro, di rigido. Un portachiavi, forse. Nemmeno, perché non ho la percezione del metallo. E allora?… Quel su e giù continuo mi toglie il respiro! Le ragazze in fondo alla carrozza gridano: – Adesso basta! – Loro hanno visto e compreso, ma che cosa? Lentamente giro la testa, il naso, a pochi centimetri dalla cosa vede, sente e capisce tutto: Odore di maschio! Deglutisco ammutolita, sbiancata….. – Verme, sei un lurido verme! – Vorrei gridare, ma non ne ho la forza e taccio. Le porte si spalancano fragorose alla fermata del Palazzo di Giustizia. Lui, fulmineo, scende e se ne va. – Chi era? – Com’era il suo volto? – Respiro a fondo una, due, tre volte. Ho avuto un attimo d’assenza, di smarrimento, poi mi sono sentita offesa, ingannata e infuriata. Con un movimento lento, le dita tremanti, ho toccato la manica. Era asciutta, integra, con un appena percettibile odioso odore di maschio. Forse lui era venuto, ma io ero pulita, intatta. Non ho pianto, non mi sono bloccata, tra le braccia del mio amore ho ritrovato fiducia e serenità, però, questa storia non gliel’ho raccontata. Quella camicetta di pizzo di Sangallo, delicata come un fiore di pesco mi aveva protetta. Era un regalo di mia madre, l’ultimo capo che aveva cucito per me. Ogni volta che faccio scorrere le ante del guardaroba, sfilano nella penombra le grucce allineate. Le dita s’infilano tra le tinte estive e quelle invernali, affondano nei soffici tessuti di lana e velluto, scivolano sulle viscose, sui cotoni aggrovigliandosi nelle nuvole dei voile, le passano tutte una per una fino all’ultima, quella schiacciata contro la parete dell’armadio. Nascosta dentro al guscio di una giacca in renna fuorimoda, tutta linda e profumata di buono, fragile come un fiore di pesco c’è lei. Grazie mamma.
Claudia Consonni, Collaboratrice Ierfop