Invito al Desiderio – 14 Conclusione
Il tempo del viaggio è una manciata di grani che conto alla rovescia in attesa della prima radiografia di controllo e della visita ortopedica post dimissioni. In quel momento si saprà se, quel marchingegno di ceramica inerte e lega metallica, si sarà messo a ruotare fluido e silenzioso in sincronia col suo gemello naturale. E gemello si fa per dire, perché con l’altro non ha proprio niente in comune. Nel corso dell’anno ne seguiranno una seconda e una terza a intervalli stabiliti dal percorso terapeutico, finalizzate a verificare la perfetta funzionalità dell’artoprotesi.
Ma chi potrà mai stabilire il tempo necessario all’incorporazione dell’oggetto esterno? E quando avverrà, se avverrà, l’annullamento della percezione del corpo intruso? In attesa di trovare risposte, osservo i piccoli segni di miglioramento che stimolano l’Io a un nuovo investimento affettivo, globale e armonico del mio corpo più che mai imperfetto.
I giorni verso la guarigione scivolano via nel comfort della mia casa. Ritrovo il piacere di maneggiare i miei oggetti e il gusto per il buon cibo. Il ricordo di quel letto d’ospedale e del suo gonfiabile antidecubito, governato da un computer e accompagnato dal continuo ronzio del compressore, sbiadisce in fretta. Ora riposo su un sontuoso materasso modello Sultan Ikea e sogno la principessa Jasmine vestita d’azzurro, calzare babbucce di seta e camminare agile su soffici tappeti persiani.
Sento, sempre sognando, la voce di Sherazade incantare il sultano con le sue storie e poi, ecco in una nuvola di sabbia sollevata dalle zampe dei cammelli, Alì-Baba con la scimitarra sguainata e i suoi quaranta compagni davanti all’entrata della caverna del tesoro. Il sogno è un attimo di quiete, un’isola felice, un lembo di terra dove appoggiare il piede nella lunga notte insonne, mentre le fibre sono in rivolta e i muscoli urlano contro un oggetto più duro e più freddo di loro, troppo asciutto e niente affatto familiare. “Se il giorno posso non pensarti, la notte tu mi appari immensa…” (Adamo ndc.).
Che sia la mia fantasia ipertrofica o un’immaginazione troppo viva ad agitare le mie notti? No, e nemmeno si tratta di autosuggestione. La percezione propriocettiva esiste e mi trasmette la sensazione di rigidità e durezza causata dalla presenza di un corpo estraneo. Così come avvertiamo la differenza tra un muscolo rilassato e uno contratto, la stanchezza di un arto che è stato usato più dell’altro, di notte, la percezione si acuisce, le sensazioni si amplificano e chiedono di essere ascoltate. Anche la guida più esperta durante un viaggio non racconta proprio tutto, ma sa quando è il momento di farsi da parte, di lasciare spazio al silenzio e alla solitudine affinché il viaggiatore possa tendere l’orecchio e cogliere le emozioni e i vissuti personali.
In questo viaggio indesiderato, tutto percorso in orizzontale, il corpo mi guida alla scoperta di nuove sensazioni, mi racconta la sofferenza e la protesta delle fibre vive contro un corpo inerte. Mi sussurra che solo una piena incorporazione dell’oggetto mi permetterà di ritrovare la perfetta stabilità verticale; che devo avere pazienza perché il dolore un po’ alla volta se ne andrà.
Giorno dopo giorno, i segni del cambiamento si fanno evidenti. Il corpo si trasforma, la temperatura si abbassa, anche la pressione scende, l’appetito è buono, ma quel che accade alla pelle mi sorprende. Lascio sul fondo della vasca da bagno mucchietti sparsi di cellule morte, faccio il pediluvio e nel bidè il deposito umano è notevole, ma non basta, altri frammenti di epidermide che qualcuno scambia per trucioli di carta si trovano sul pavimento e finiscono nell’aspirapolvere. Dunque, che cosa succede? Che stia entrando nella dimensione rettiliana? Un’iguana? Un piccolo boa, chissà! L’insonnia continua. La notte è movimentata, giro tutto il letto senza trovare una posizione comoda. Ci vuole tempo per smaltire la tensione della vita ospedaliera, dell’intervento e del loro effetto. Durante il ricovero pressione e temperatura erano alterate. Il movimento, per me così vitale, ridotto al minimo.
Allettata per 15 lunghissimi giorni e, nonostante le flebo di fisiologica e le bottiglie d’acqua che sorseggiavo a fatica, ma con puntigliosa regolarità, essiccavo piano, piano. La pelle delle mani si trasformava in piccole squame ruvide e linee quasi invisibili segnavano i polsi e il viso. Questa epidermide tartarugosa non era certo la mia. Il tempo della muta era giunto.
In Pronto Soccorso, lo ricordo molto bene, mi ero sentita attraversare da onde di emozione, di paura e di stress che si sono subito manifestate con tremito agli arti, temperatura e pressione in salita, ma, soprattutto, la pelle sembrava impazzita. All’improvviso sul petto e sul dorso erano comparse delle inspiegabili macchioline rosse. I medici che mi scoprivano per fare l’elettrocardiogramma mi chiedevano se soffrissi di allergie. Rispondevo decisa che era una reazione causata dalla criticità della situazione.
A casa, entrata nella fase rettiliana, tutto sparisce; le macchioline rosse, anche se mangio tante fragole, non si fanno più vedere e la pelle si rinnova nel verde tenero della stagione. La fisioterapia è un treno in corsa che muove l’aria. Sto nella sua scia e la riabilitazione prende l’abbrivio, incoraggiandomi ad ampliare l’attività motoria con esercizi sempre più performanti. La gamba gradisce, l’urlo delle fibre si allontana. Il fastidio dell’intruso, però, richiederà mesi e mesi prima di essere cancellato.
Per accelerare questo processo mi aiuto con l’immaginazione, il gioco e la fantasia. Immagino di disegnare un corpo umano, il mio o uno qualunque, però con un volto e un abito, un tipo insomma che ha una protesi all’anca. Per metterla in evidenza, però, dato che sto attraversando lo stadio rettiliano, potrei disegnare una sporgenza all’altezza del fianco sinistro, come il boa che quando inghiotte la sua preda si deforma. Quest’idea non mi piace, è troppo semplice e superficiale, perciò invento qualche cos’altro che mi aiuti a continuare il viaggio verso la tappa successiva.
Seconda Trasformazione Disegno gli arti ai raggi X, come se si possa vedere tutto quello che c’è sotto alla pelle. Poi, con immagini successive, illustro il progressivo rivestimento del corpo inerte. Comincio col tratteggiare il collo del femore, quindi, uno strato dopo l’altro, aggiungo i muscoli e i tendini, le cartilagini, le vene e le arterie fino a ricoprirlo completamente e affondarlo nel profondo della coscia.
Le mie conoscenze anatomiche sono scarse e il risultato è un groviglio di linee, punti e spirali che suggeriscono vagamente l’idea di un quadro astratto. I passaggi successivi sono più facili, ormai sono arrivata alla superficie. Disegno una gamba ben proporzionata e tonica, con la pelle liscia e morbida spennellata di crema, una cicatrice lunga e sottile, che definirei bellina, e sopra a tutto, la velata trasparenza del collant.
Quando mai si definisce una cicatrice bellina? Il vocabolo mi è venuto così, di getto. Che mi stia già affezionando? “Un giorno dopo l’altro, il tempo se ne va” (Tenco ndc.).
E passano Pasqua, Pasquetta e la post Pasquetta. Arriva il sospirato giorno del controllo. Già da una settimana avevo sospeso le iniezioni di Eparina e smesso le fastidiose calze bianche, inguinali, così strette e dure da segnare sulla pelle dietro al ginocchio le linee profonde delle pieghe. Chi non le ha provate, non sa quanto sono insopportabili! Ho fatto veramente un grande sforzo per eseguire l’ordine dei medici. Ogni mattina le mani di un’amica me le infilavano dopo avermi spolverato le gambe di borotalco per farle scivolare. Le portavo fin verso l’una di notte, poi le gambe s’incendiavano, allora le sfilavo e per qualche ora mi sentivo libera.
Il giorno stabilito ho varcato di nuovo le porte del “Mondo Galeazziano” seduta in carrozzina. In mezzo a tante persone stampellate, con bastoni, deambulatori e sedie a rotelle, ho sostato in un corridoio in attesa di sentire il mio numero. Le porte degli studi si aprivano e si chiudevano velocemente. Le voci dei medici che pronunciavano il nome dei pazienti si sovrapponevano agli annunci dell’altoparlante e noi, più o meno attrezzati con la nostra ferraglia, eravamo pronti a rispondere e a correre verso la porta. Bastava un piccolo ritardo per perdere il posto.
Gli ortopedici hanno detto che la protesi era ben sistemata e che la cicatrice era bella. Con queste poche parole, in un tempo minimo, di colpo sono stata messa al mio posto. Come una molla che scatta dal basso verso l’alto, sono stata proiettata su un piano verticale. Basta carrozzina, via il deambulatore, niente stampelle o bastoni canadesi, si cammina con calma e cautela sulle proprie gambe. Si continua con la fisioterapia e la ginnastica.
Con le chiavi in mano, in piedi, ho aperto la porta del mio appartamento. Nell’attraversare il soggiorno senza appoggio esterno, la sensazione dell’altezza, percepita lungo tutto l’asse verticale, mi ha dato un fuggevole senso di vertigine. Chiudo nel pesante sacco della memoria questo viaggio indesiderato, vissuto tutto in orizzontale, sospesa a qualche decina di centimetri dal suolo. Senza ali né piume, priva di pinne e squame, con uno struggente desiderio di tornare a posare il piede a terra, sono stata spinta verso luoghi sconosciuti e dolorosi. Totalmente affidata a mani altrui, alla competenza di persone che hanno saputo creare nuovi accordi e armonie tra le mie tre ossa e un ferro, ho raggiunto la meta. Le cure e l’affetto degli amici e dei familiari mi hanno accompagnata prima in orizzontale e poi in verticale verso la soglia di un nuovo desiderio. Con le mie tre ossa e un ferro ricompongo la zattera, raccolgo qualche vago frammento dall’Odissea e lo scrivo qui in segno di buon auspicio.
Vorrei che Atena, la figlia di Zeus, degli altri venti incatenasse le vie, ordinasse a tutti di fermarsi e dormire. Che destasse solo il rapido Borea e l’onde mi rompesse davanti. Col cuore colmo di gratitudine verso tutte le persone che mi hanno offerto il loro aiuto, che mi hanno donato fiducia e speranza, accolgo un futuro invito al viaggio.
Claudia Consonni – Collaboratrice Ierfop