Abbandonare il lavoro è un passo avanti, ma non bisogna improvvisare
Perché si lascia il proprio posto di lavoro? Per stress o per esaurimento, per riprendersi il timone della propria vita e, in questo modo, il tempo per reinventarla. Certamente anche per cercare una retribuzione migliore, una posizione e un ambiente più adatti alle proprie competenze. Sono queste le motivazioni e i contorni di una tendenza, il cosiddetto “quitting”. Dopo la pandemia è continuato a crescere sorprendentemente nelle fasce più precarie e pressate, portandole alle dimissioni volontarie anche di chi non ha un piano B e non potrebbe vivere di rendita.
Nel 2021, negli Stati Uniti, si è registrato un picco: 48 milioni di dipendenti dimissionari. Record superato nel 2022 con 50,5 milioni.
All’University College di Londra è stato coniato il neologismo “ great resignation”, usando volutamente una parola che in inglese significa anche “rassegnazione”.
C’è l’alternativa del Quiet Quitting. Ovvero, si mantiene il posto di lavoro impegnandosi però lo stretto indispensabile e facendo gli orari previsti, senza straordinario.
Attenzione, però: la sociologa Francesca Coin, autrice di Le grandi dimissioni (ed. Einaudi), parla di una «fuga dal lavoro povero». In Italia, l’82,3 per cento dei lavoratori è scontento e ritiene di meritare di più (fonte Censis). Tra questi, il 29 per cento cerca un cambiamento, ma a differenza degli Usa, vive in un Paese dove il tasso di disoccupazione era al 7,9 per cento nel 2022.
Nonostante l’elevato rischio di non reimpiegarsi in tempi stretti, oltre 2 milioni di italiani l’anno scorso hanno firmato le dimissioni. E il fenomeno non è circoscritto a un gruppo ristretto di paesi occidentali: è globale.
In Italia, l’aumento delle dimissioni volontarie ha registrato nel 2021 un 30,6 per cento rispetto l’anno precedente. In Lombardia il 37,7 per cento e il 34,9 per cento in Veneto. Nel 2022, oltre due milioni di persone ha lasciato il proprio impiego.