Disabilità e lavoro: ecco perché la legge 68/99 non funziona
Nonostante la legge 68/99 preveda sanzioni per chi non assume, i datori di lavoro continuano a fare orecchie da mercante. È evidente, quindi, che in questo sistema di obblighi e penalizzazioni qualcosa non stia funzionando. Vediamo perché.
Quando è obbligatorio assumere
L’obbligo di assunzione per le aziende scatta al raggiungimento di 15 dipendenti: se tutti i 15 lavoratori sono computabili, il datore di lavoro deve presentare la richiesta di assunzione entro 60 giorni dalla data prevista. L’assunzione può avvenire tramite richiesta nominativa o convenzioni.
Cosa succede in caso di non adempimento
Se non si adempie all’obbligo, si rischia una sanzione amministrativa pari a euro 702,43, maggiorata di euro 34,02 per ogni giorno di ritardo successivo al 31 gennaio 2024. Trascorsi sessanta giorni dalla data in cui insorge l’obbligo di assunzione, è prevista una sanzione pari a cinque volte la misura del contributo esonerativo di 39,21 euro, ovvero 196,05), per ogni giorno lavorativo e per ciascun lavoratore con disabilità non occupato.
Nel 2022, per incoraggiare i datori di lavoro ad assumere, le sanzioni sono aumentate di “ben” 9 euro al giorno per ogni lavoratore con disabilità non assunto. Cifre, queste, che si commentano da sole.
Intanto, mentre attendono che una legge obsoleta come la 162/99 vada in pensione, oltre 1 milione di persone disoccupate con disabilità restano tali, cioè disoccupate, vittime di un sistema che penalizza tutti.
Sanzionare o informare?
Ma cosa spinge i datori di lavoro a pagare le sanzioni anziché assumere personale con disabilità? Una risposta la si può trovare nelle molte barriere mentali ancora presenti in Italia.
Se il dipendente con disabilità continua a essere visto come un obbligo anziché come una risorsa, se si impongono sanzioni anziché promuovere la formazione, non si va da nessuna parte. Perché non imporre la creazione di un fondo, in sostituzione della cifra da versare in caso di mancata assunzione, per formare datori di lavoro e dipendenti sulle buone pratiche di inclusione?
Perché non cambiare la prospettiva dei datori di lavoro spingendo sulle competenze delle persone con disabilità, anziché sulla disabilità stessa come requisito primario per l’assunzione? Qualcuno parla di “persone disabilitate” dalla società, cioè persone che non vengono messe in condizione di avere una vita “normale” non da una malattia, bensì da una serie di comportamenti errati da parte di istituzioni, familiari ecc.
In questo caso, si potrebbe forse parlare di lavoratori “disabilitati” da una legge vecchia di un quarto di secolo. È tempo che le cose cambino.
Roberta Gatto