Bridgerton: quando il politically correct irrompe nell’epoca della reggenza
La terza stagione della serie tv tratta dai romanzi di Julia Quinn è forse la più attesa e quella più “inclusiva”. Ma siamo sicuri che non si tratti soltanto di “disability washing?”. Cioè quella pratica molto comune di inserire il concetto della disabilità senza però effettivamente coinvolgere persone disabili o portare loro un contributo.
Tra Storia e finzione
Amore, passione, pettegolezzi e conflitti. Questi sono gli ingredienti principali della terza stagione di Bridgerton, la serie tv tratta dai romanzi di Julia Quinn, una delle più viste su Netflix. La storia, ambientata nella Londra della reggenza (1811-1821), segue le vicende della famiglia Bridgerton, composta da quattro figli maschi e quattro femmine e dei loro successi sul mercato matrimoniale.
Essendo una serie tratta da romanzi, non ha ovviamente alcuna pretesa di veridicità storica. Però… C’è un però.
Luci e ombre nell’Inghilterra regency
La serie dei libri, come ogni romanzo rosa ambientato nel passato, è storicamente accurata e priva di elementi anacronistici. La finzione sta proprio nel raccontare dell’amore tra i protagonisti. Infatti, come ogni lettrice o lettore sa bene, difficilmente nella Londra del 1800 i matrimoni venivano contratti per amore e la vita non era così idilliaca come descritta dalle autrici di questo genere. Se da un lato è vero che le classi sociali più elevate passavano il tempo tra balli, ricevimenti, compere dalla modista, passeggiate nel parco e altre frivolezze simili, è altrettanto vero che essere donna nell’Inghilterra del XIX secolo era tutt’altro che una fortuna.
Risparmiando i particolari, basterebbe sapere come i beni della donna erano amministrati dal marito al quale la moglie doveva obbedienza e dal quale, spesso, subiva anche violenza. Tralasciamo il fatto che nel talamo nuziale la donna dovesse limitarsi a compiere l’atto sessuale ai fini della procreazione e che il piacere femminile fosse considerato disdicevole, se poi pensiamo a come non di rado le coppie fossero formate da ragazze poco più che adolescenti e uomini sopra i quaranta.
La forza dei romanzi rosa storici, quindi, sta proprio nel prendere in considerazione principalmente le luci di questo secolo tanto affascinante quanto controverso e di assicurare sempre un lieto fine. Le coppie convolano sempre a nozze per amore, in camera da letto esplode sempre una grande passione, le unioni sono benedette da nidiate di pargoli (non manca mai l’erede maschio)e infine i protagonisti vivono felici e contenti fino a età assolutamente improbabili per un’epoca in cui si moriva per un’influenza o un taglietto.
Il punto è che a chi legge va bene così. Nel romanzo rosa storico non cerchiamo la realtà, ma l’evasione dalla realtà. Sappiamo bene che l’amore non trionfa sempre, che gli uomini non sono tutti principi bellissimi in groppa a un cavallo bianco e che non sono lì per salvarci dalle brutture della vita (né sentiamo la necessità che lo facciano). Sappiamo anche che la vera bellezza è quella dell’anima ecc. ecc., ma ci piace pensare che in un universo parallelo di finzione succeda esattamente questo.
Cos’è allora che non piace in Bridgerton?
L’incastro imperfetto della disabilità
Da persona con disabilità, mi piacciono quei prodotti di intrattenimento che riescono a inserire personaggi con disabilità nelle loro storie. Amo Daredevil, nel quale un avvocato cieco diventa un giustiziere mascherato. Stiamo parlando di una serie tv tratta da un fumetto del 1964. Mi piace la serie di Blanca, tratta dai romanzi di Patrizia Rinaldi, dove una ragazza cieca lavora in Polizia. Sono storie con protagonisti non vedenti e sono storie scritte in modo intelligente, nelle quali la disabilità ha un suo perché e anche un percome. In entrambi gli esempi citati, la privazione della vista permette di affinare gli altri sensi, rendendo i protagonisti capaci di compiere al meglio le loro missioni.
Non si tratta, quindi, di storie dove la disabilità è buttata là giusto per fare contento il pubblico. Per quanto mi riguarda, non sento il bisogno di essere rappresentata come persona non vedente per dieci secondi in una produzione nella quale la mia disabilità non c’entra un accidente.
E sinceramente, a mio avviso, in Bridgerton si sta facendo proprio questo. Dopo la miscellanea di etnie poi giustificata nello spin-off sulla regina Carlotta, è arrivato il momento della disabilità. Per ora ho visto una ragazza esprimersi in lingua dei segni e un giovane aristocratico in sedia, messi lì giusto per ricordarci che nel XIX secolo c’erano anche loro. Grazie tante, lo sapevamo. Ma ai fini della storia? Il nulla cosmico.
Non sto dicendo che la disabilità non debba essere rappresentata, anzi. Mi disturba però che sia incastrata lì a forza, quasi a dire: “guardate quanto siamo inclusivi”. Ho letto romanzi rosa storici bellissimi nei quali uno dei protagonisti aveva una disabilità. Perché non produrre questi, o scriverne di nuovi, anziché dare il contentino con un prodotto nel quale, semplicemente, l’autrice non aveva preso in considerazione di rappresentare la disabilità?
Non è mica una colpa. Non è necessario ricordare al mondo ogni due secondi che ci siamo anche noi. Temo anzi l’effetto boomerang. Insomma, io sono non vedente, posso comunque godermi una serie o un libro nel quale non c’è nemmeno una persona con disabilità visiva senza sentirmi discriminata. E sinceramente, avrei preferito una serie tv di Bridgerton più fedele ai romanzi.
E magari un’altra serie, scritta ex novo, nella quale la disabilità fosse rappresentata con cognizione di causa. Sicuramente, c’è bisogno di una maggiore rappresentazione di tutte quelle categorie che fino a ora non erano state minimamente prese in considerazione in prodotti di questo tipo.
Cosa piace
Dato che si deve dare a Cesare quel che è di Cesare, concludiamo con ciò che di buono questa serie ha prodotto, ovvero lo spin-off sulla regina Carlotta. Non solo ha dato un senso alla presenza di uomini e donne di colore nell’aristocrazia londinese (il che storicamente non è assolutamente corretto), ma è riuscita a parlare di disabilità psichica attenendosi alla realtà storica (il re Giorgio era realmente affetto da malattia mentale) e lo ha fatto con una delicatezza commovente. Ha inserito l’omosessualità con intelligenza, ha mostrato la vera condizione della donna nel matrimonio e ha fornito spunti sulla forza delle donne in un’epoca davvero poco gentile con il gentil sesso. Insomma, ci ha regalato una storia coinvolgente e a parer nostro molto superiore alla serie principale. E il tutto partendo da una sceneggiatura originale. A conferma di come basti davvero poco per dare vita a prodotti davvero inclusivi, senza dover per forza snaturare quelli già esistenti.
Roberta Gatto