Comunicare la disabilità: “sordo”, “speciale” e “sfortunato” sono parole ed espressioni da evitare

Un vademecum e un glossario per capire quali espressioni evitare e quali invece preferire quando si parla di disabilità. Non una carta deontologica, ma un valido supporto per giornalisti e comunicatori perché le parole possano andare oltre stereotipi e pregiudizi. Non “sordo”, “disabile” o “affetto da autismo”. Ma “persona con disabilità uditiva”, “con disabilità” e “con autismo”. Nasce così, su questi obiettivi, “Comunicare la disabilità. Prima la persona”, frutto del lavoro del “Gruppo Carta di Olbia” curato dal Coordinamento pari opportunità del Consiglio Nazionale dell’Odg. Un team a più voci, che nel dicembre 2022 ha anche presentato al presidente nazionale dell’Ordine Carlo Bartoli una proposta di norme deontologiche, cercando di andare oltre la visione preconfezionata della disabilità.

Informazione e disabilità, l’incontro al rettorato di Cagliari

Sono questi, dunque, i punti salienti della quinta tappa del percorso formativo del “gruppo Carta” svolto nei locali del Rettorato dell’Università degli Studi di Cagliari. Il gruppo di lavoro composto dalle giornaliste di GIULIA Sardegna Susi Ronchi, Caterina De Roberto, Vannalisa Manca e Francesca Arcadu (quest’ultima anche vicepresidente Uildm Sassari), da Veronica Asara presidente dell’Associazione SensibilMente Olbia e dall’avvocata Sara Carnovali. Attualmente, si rileva come manchi un linguaggio inclusivo e nella comunicazione non è raro scivolare in frasi fatte e stereotipi come “costretto sulla carrozzina”, ad esempio, oppure “persona o bambino speciale”.

L’esigenza di una carta condivisa: le parole si evolvono nel tempo

Ma allora quali parole si devono usare, quando si parla di disabilità? Prima di tutto bisogna capire che cosa vogliamo comunicare a chi legge o ascolta. La persona, oggetto della comunicazione, deve essere sempre messa al centro ed è importante saper dosare le parole, capaci di costruire ponti sì, ma a volte anche muri. Partire dalla persona, prima ancora che dalla sua disabilità. Le parole possono cambiare nel corso del tempo. Da intento neutro e positivo, infatti, possono arrivare ad accezioni negative. Come “handicap” o “handicappato”, originariamente nate con una connotazione non negativa e usate anche nel gergo sportivo.

Quali parole ed espressioni da evitare

Il linguaggio deve essere in grado di evolversi e adeguarsi alla società. La lingua infatti deve essere specchio dei cambiamenti, soprattutto quella dei giornalisti. “Persona disabile”? No, “persona con disabilità“. Spesso, infatti, si possono mettere in atto dei pregiudizi, ma è fondamentale mettere al centro la persona. E la disabilità? Solo se funzionale alla notizia. E ancora, “costretto su una sedia rotelle”. Meglio, “si muove su una sedia a rotelle“. Così come “bambino speciale”: il bimbo non è in una realtà parallela, lontana ed esclusiva. Talvolta, comunicando la disabilità, si cade nell’errore della narrazione del dolore: “gli sfortunati” o “diverso”; altre volte, invece, nell’esaltazione di ogni azione extra ordinaria: ma l’eccesso di premura può trasformarsi in esclusione. Senza contare quelle perifrasi che girano intorno ma non danno definizione: “diversamente abile”, ad esempio. Ma perché diverso?

Cercare sempre le parole giuste

Raccontare le persone, certo, ma sempre con rispetto. È questo il dovere di chi comunica sempre alla costante ricerca delle parole giuste. Avere cura delle persone, quindi. Anche, e soprattutto, nella scelta delle immagini. Con sensibilità? Meglio con professionalità. E curiosità per un mondo che riguarda 13 milioni di persone in Italia.

Gianmarco Cossu

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