No al licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla natura discriminatoria del licenziamento effettuato a seguito di superamento del periodo di comporto quando le assenze del lavoratore siano connesse alla sua condizione di disabilità. A dirlo è la sentenza n.11731 del 2024 dove la suprema corte di giudizio dà ragione a un lavoratore che aveva fatto ricorso contro l’azienda che lo aveva licenziato senza adottare strumenti adeguati di tutela per lavoratori svantaggiati.
La vicenda
La vicenda riguarda il licenziamento di un dipendente in forza dall’anno 2009 con mansioni di operaio. A causa di una patologia oncologica diagnosticata nel 2010, nel luglio 2019 avviene il licenziamento. Le ragioni? Il superamento del periodo di comporto. La salute del lavoratore si deteriora progressivamente nel corso degli anni e nel 2015 la sua capacità lavorativa subisce una riduzione del 75 per cento. Così le sue mansioni vengono gradualmente ridotte fino al licenziamento. A cui si fa ricorso legale. Risultato? La sentenza di primo grado si pronuncia a favore del dipendente. Il licenziamento viene ritenuto nullo in quanto discriminatorio, condannando di fatto l’azienda a reintegrarlo nel posto di lavoro. Stabilito anche il pagamento di un’indennità risarcitoria, calcolata in base all’ultima retribuzione globale percepita dal momento del licenziamento alla reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per lo stesso periodo.
Tutto a posto? No. C’è il ricorso dell’azienda e così la Corte d’Appello di Firenze con sentenza del 4 novembre 2021 respinge di nuovo il reclamo presentato dalla società datrice di lavoro contro la sentenza di primo grado, confermandone così la validità. Anche la Corte d’Appello ritiene infatti il licenziamento discriminatorio in quanto collegato alla documentata patologia oncologica del dipendente. Di più: si sottolinea anche l’incapacità dell’azienda di adottare strumenti adeguati di tutela per lavoratori svantaggiati, specie a fronte di quanto previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (Ccnl) applicato dove si prevedeva un arco temporale unico e indifferenziato mancando pertanto di distinguere tra periodi di malattia imputabili a disabilità e non. Ma non basta: la società presenta ricorso in Cassazione il 3 gennaio 2022.
La decisione della Cassazione
La Corte di Cassazione esamina le ragioni presentate dalla società ricorrente e, di nuovo, li giudica tutti infondati.
In primo luogo viene chiarito come il concetto di “periodo di comporto” rientra nella più ampia categoria dell’ “accomodamento ragionevole”. Si tratta di un obbligo del datore di lavoro che deve essere valutato prima di procedere al licenziamento di un dipendente.
La Corte di Cassazione sottolinea anche come sia ormai consolidato il principio che applicare il periodo di comporto ordinario ai lavoratori con disabilità costituisce una forma di discriminazione indiretta. Questo perché non tiene conto dei rischi maggiori di salute e di comorbilità dei lavoratori con disabilità dovuti alla loro condizione. E quindi si trasforma un criterio neutro come il periodo di comporto breve, in una prassi discriminatoria nei confronti di un gruppo sociale particolarmente svantaggiato.
In questi casi si applica anche un’attenuazione dell’onere probatorio. Questo riguarda principalmente il datore di lavoro (a patto però che il lavoratore abbia fornito elementi fattuali che devono rendere plausibile la discriminazione) e che vale anche in riferimento alla consapevolezza del datore di lavoro della condizione di disabilità del proprio lavoratore. In pratica, se il lavoratore ha fornito elementi che rendono plausibile la discriminazione, il datore di lavoro ha l’obbligo di approfondire le ragioni delle assenze per malattia del dipendente, specialmente se legate a una disabilità nota.
Nel caso di specie, per la Corte è pacifico che nei giudizi precedenti si è accertata l’effettiva condizione di disabilità del lavoratore, in forza di apposita documentazione fornita dal dipendente all’azienda nel luglio 2010. Tale condizione era pertanto ben nota all’azienda datrice di lavoro e aveva comportato la quasi totalità delle assenze per malattia computate ai fini del periodo di comporto, nonché il progressivo abbassamento di livello delle mansioni svolte dal lavoratore e l’incidenza negativa sulla propria vita professionale.