Disabilità nella storia: Emanuele Filiberto di Savoia Carignano
“Un castigo di Dio e un’offesa alla propria dignità di madre”. Così la contessa di Soissons, principessa di Savoia e madre di Emanuele Filiberto, definisce il suo primogenito. Come si legge nella biografia pubblicata da Giappichelli editore, “Il Savoia sordomuto”, la donna non accetta la disabilità del figlio, tanto da dolersene persino nelle esecuzioni testamentarie.
Il giovane, nato a Moutiers il 20 agosto 1628, soffre a sua volta per la mancanza di amore materno e all’età di 28 anni scrive in una lettera a Giovanna Battista di Savoia Nemours, seconda madama reale: “la Principessa, mia signora madre, tiene dell’avversione per me e mi vuole far passare per matto e stravagante, cosa che mi affligge…”.
Ma Emanuele non è di certo matto. In realtà, il giovane Savoia è un sordo preverbale, cioè un bambino nato sordo e di conseguenza impossibilitato ad apprendere la lingua parlata in modo spontaneo.
Tuttavia, il giovane rampollo di casa Savoia non si perde d’animo. All’età di 8 anni, mentre viene tenuto prigioniero insieme alla famiglia a Madrid, in Spagna incontra quello che diventa ben presto il suo logopedista: il severissimo don Miguel Ramirez de Carrion, che gli insegna a parlare e leggere il labiale a prezzo di tremende punizioni.
Emanuele non impara solo lo spagnolo e l’italiano, ma anche il latino, il francese e il dialetto piemontese.
Il giovane si appassiona ben presto alla lettura e all’arte, in special modo all’architettura, arrivando nella seconda metà del XVII secolo a suggerire al re Carlo Emanuele II alcune modifiche alla progettazione della Reggia di Venaria Reale. Un’iniziativa notevole, se si pensa a quanto da ragazzo fosse restio a frequentare la corte a causa delle prese in giro degli altri nobili. Insomma, il bullismo è qualcosa in grado di trascendere la storia, purtroppo.
L’amore prima di tutto
Come nelle migliori favole però, il principe di Carignano (divenuto nel frattempo governatore d’Asti e tenente generale nell’esercito del sovrano) è un uomo di bell’aspetto, colto e raffinato. Ha quindi tutte le carte in regola per conquistare una gentildonna.
Alla morte del padre, nel 1656, dato che non si è ancora sposato, si pensa a nominare erede suo nipote Luigi Tommaso di Savoia. Il ragazzo, però, sposa una nobildonna francese invisa alla famiglia e così la madre e la sorella cominciano la ricerca di una sposa per Emanuele.
Delle tre candidate è Maria Caterina D’Este ad attirare l’attenzione del Savoia, il quale se ne innamora semplicemente vedendone il ritratto.
Il matrimonio, celebrato nel 1684 causa però l’ira di Luigi XIV di Francia, il quale sperava di veder sposato il principe con una delle sue figlie. Per tale motivo, impone al nipote Vittorio Amedeo di Savoia di esiliare lo zio dalla corte torinese.
Pochi giorni dopo le nozze, la coppia di novelli sposi è quindi costretta a lasciare il Castello di Racconigi e si trasferisce a Bologna.
Per anni, il principe di Carignano rifiuta di chiedere perdono al sovrano francese, ritenendo il proprio amore al di sopra dell’autorità del re Sole e dei suoi giochi di potere e solo nel 1685 fa ritorno con la moglie alla corte di Torino, dopo aver scritto una lettera nella quale si dice disposto a ristabilire la pace con Luigi XIV.
Muore a Torino il 21 aprile 1709, all’età di 81 anni. Dal 1836, le sue spoglie si trovano presso la Sacra di San Michele, sul Monte Pirchiriano.
Di quest’uomo, ci resta la testimonianza di un carattere forte, capace di andare oltre i pregiudizi e di vivere la vita secondo i propri desideri. Oggi lo chiameremmo un anticonformista e un romantico. Di sicuro, è stato capace di lasciarsi alle spalle i pregiudizi della società per seguire la propria strada, faticando e impegnandosi al massimo e dando prova di grande sensibilità e intelligenza.
Ancora una volta quindi, non è la disabilità a imporre dei limiti, ma la mentalità di coloro che non la comprendono. In questo, Emanuele si è dimostrato un uomo modernissimo, che si definiva “fortunato fin dalla nascita”, accogliendo la sordità come una caratteristica intrinseca alla sua persona e non uno svantaggio.
Un uomo capace di distinguersi in senso positivo, seppur in un’epoca dove la disabilità era considerata come un qualcosa di cui vergognarsi.
Roberta Gatto