La figura dell’assistente personale? Esisteva già nella Preistoria

Dal passato e dalla Storia c’è sempre da imparare. E stando ai ritrovamenti archeologici della grotta del Romito, in provincia di Cosenza, anche la preistoria ha molto da insegnarci. Da una ricerca condotta su alcuni reperti fossili presenti nella grotta, è emerso come già nel paleolitico ci si prendesse cura delle persone con disabilità, inserendole al contempo nel contesto sociale e lavorativo. Insomma, i nostri antenati preistorici erano più inclusivi e aperti di noi.

La storia dei due Romito

Da un’analisi condotta sulle ossa rinvenute nel sito, gli archeologi hanno compreso che già 12mila anni fa, le società preistoriche erano in grado di integrare le persone con disabilità. È il caso di Romito 8, giovane uomo preistorico dal fisico forte e robusto, ideale per svolgere mansioni di caccia e raccolta.

A vent’anni, però, un trauma (probabilmente una caduta da un albero) gli provoca lo schiacciamento delle vertebre, con lesione del plesso brachiale e paralisi delle braccia. Una situazione terribile per chi come lui sopravvive cacciando e raccogliendo.

Romito 8 sembra destinato alla morte e invece trova chi lo accudisce e gli assegna un altro compito. «Le ossa delle gambe raccontano che rimaneva a lungo accovacciato, mentre i suoi denti, l’unica cosa sana e forte che gli era rimasta, mostrano segni di usura fino alla radice» commenta Fabio Martini, archeologo all’Università di Firenze, «e questo fa pensare che li abbia usati per un lavoro: per masticare materiale duro come legno tenero oppure canniccio che altri, si può ipotizzare, avrebbero utilizzato per costruire manufatti come cestini o stuoie. Quelle lesioni non trovano nessun’altra giustificazione».

Il caso di Romito 2

Romito 8 non è però l’unico esempio di inclusione nella preistoria.  Nella stessa grotta, infatti, sono state rinvenute le ossa di Romito 2, un giovane affetto da una forma di nanismo congenita chiamata displasia acromesomelica.

Romito 2 era alto un metro e dieci e non era in grado di cacciare a causa degli arti molto corti.

Tuttavia, grazie al supporto della sua comunità, è sopravvissuto fino ai vent’anni. I suoi resti sono stati ritrovati insieme a quelli di una giovane donna, come spiega il dottor Fabio Martini. «Il Romito 2 è stato sepolto con una donna della stessa età in una posizione particolare, perché l’uomo appoggia la testa sulla spalla della donna. Questo è inusuale dal momento che, nelle sepolture doppie, i cadaveri sono semplicemente avvicinati. Se questa specie di abbraccio abbia un significato protettivo nei confronti della persona con disabilità è difficile dire, ma certamente la suggestione è da prendere in considerazione».  

La bioarcheologia della sanità

Gli studi su Romito 2 e Romito 8 fanno parte dell’archeologia della sanità, una nuova branca che si occupa di comprendere in che modo i nostri antenati si prendessero cura delle persone malate o con disabilità, risalendo in tal modo anche ai loro modelli culturali e sociali.

La bioarcheologia della sanità si basa sullo studio di ossa e scheletri in quattro fasi: la prima  mira a formulare una diagnosi, la seconda a descrivere come la malattia o la disabilità si inserissero nel contesto socio-culturale, la terza a individuare il tipo di assistenza e infine la quarta a formulare ipotesi sulle culture preistoriche in base ai dati raccolti.

Nel caso del Romito 2, ad esempio, il tipo di assistenza era più che altro una forma di tolleranza, mentre nel caso del Romito 8 si trattava di assistenza di tipo infermieristico, così come accaduto per Man Bac Burial 9 o «M9», uno scheletro ritrovato nella provincia di Ninh Binh, a un centinaio di chilometri da Hanoi nel Nord del Vietnam.

M9 era un uomo tra i venti e i trent’anni, vissuto nel neolitico, con un’atrofia delle braccia e delle gambe, un’anchilosi di tutte le vertebre cervicali e delle prime tre vertebre toraciche e una degenerazione dell’articolazione temporo-mandibolare. Gli studiosi hanno ipotizzato che fosse affetto da sindrome di Klippel Feil di tipo III, e che questa patologia lo avesse reso paraplegico o tetraplegico durante l’adolescenza. M9 è però riuscito a sopravvivere per dieci anni in questa condizione grazie alle cure della sua comunità, formata prevalentemente da cacciatori e pescatori.

«La bioarcheologia della salute» scrive Lorna Tilley (Australian National University di Canberra) in un recente articolo pubblicato sull’International Journal of Paleopatology,  «è in grado di fornire informazioni sulla vita dei nostri antenati. Il caso del giovane vietnamita non solo dimostra che la società in cui viveva era tollerante e disponibile, ma che lui stesso aveva una certa stima di sé e una grande forza di volontà. Senza questo» conclude, «non avrebbe potuto sopravvivere».

Roberta Gatto

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