Ditemi come devo parlare!

Nel corso di un concerto a Barletta, il cantautore Antonello Venditti ha insultato una persona che vicino al palco pronunciava delle parole. Si è trattato di un equivoco: Venditti pensava fosse una contestazione nei suoi confronti, invece erano segni di approvazione. A pronunciarli è stata una donna con disabilità e questo ha generato le polemiche, anche perché il cantautore, informato della questione da un suo collaboratore e non avendo ancora percepito l’equivoco, ha rincarato la dose: «ho capito, un ragazzo speciale che però deve imparare l’educazione.

La vicenda si è poi chiarita: Venditti ha chiesto scusa, i genitori della donna hanno riconosciuto che si era trattato di un’incomprensione e hanno spiegato che per loro la questione era chiusa.

La discussione

La notizia è stata rilanciata e affrontata da molti organi d’informazione, ognuno lo ha fatto a suo modo, ognuno  ha evidenziato l’aspetto più consono alla propria linea editoriale (?).

Segue dibattito. Come nei circoli cinematografici degli anni ’70, si è aperta la discussione. Su vari temi. Uno di questi è l’utilizzo della parola “speciale”: il mantra è non chiamateli speciali!

Il giorno dopo la polemica è tutto un susseguirsi di: «si è capito che si è trattato di un equivoco, ma la parola “speciale” stride», «la disabilità non è speciale», «non parliamo di persone speciali quando ci riferiamo alla disabilità». L’elenco sarebbe molto lungo.

La mia esperienza

Faccio quello che un giornalista non dovrebbe fare mai, parlare di sé. Ma le regole sono fatte per essere cambiate (ricordatevelo!).

Ho avuto la fortuna per anni di occuparmi, per ragioni di lavoro, del movimento degli Special Olympics: attività sportive, soprattutto, ma anche viaggi, incontri, momenti di condivisione. L’ho fatto perché coinvolto da quella grande persona che è Carlo Mascia, all’epoca presidente degli Special Olympics della Sardegna.

Carlo Mascia ha dedicato la sua vita a ragazzi che prima stavano in casa, forse su un divano, forse attivi, ma non troppo. Li ha portati a fare quello che tutti gli altri facevano. Forse anche di più. Io, molto semplicemente, li intervistavo e mi facevo raccontare quello che avevano fatto o che dovevano fare, come con tutti gli altri.

Li ho sempre chiamati ragazzi speciali. Mi devo pentire? No, non lo faccio. Non l’ho inventato io quell’aggettivo. Mi sono adeguato. E non ho mai voluto, né pensato di essere offensivo.

Gli Special Olympics

Copio volgarmente dal sito.

«Special Olympics è un Movimento globale che, attraverso lo sport unificato, sta creando un nuovo mondo fatto di inclusione e rispetto, dove ogni singola persona viene accettata e accolta, indipendentemente dalla sua capacità o disabilità.

Il giuramento dell’Atleta Special Olympics è: “Che io possa vincere, ma se non riuscissi che io possa tentare con tutte le mie forze”.

In Italia oltre 12.000 Atleti ogni anno sono protagonisti di centinaia di eventi, organizzati a ogni livello: locale, nazionale e internazionale. Lo sport, offrendo continue opportunità di dimostrare coraggio e capacità, diventa un efficace strumento di riconoscimento sociale e di gratificazione. Le persone con disabilità intellettive restano, ancora oggi, emarginate e discriminate ma non in Special Olympics: il programma di Sport Unificato (Unified Sports) – attraverso il quale Atleti con e senza disabilità intellettive hanno l’opportunità di giocare insieme nella stessa squadra – pone le basi per il superamento di ogni stereotipo o pregiudizio. Lo sport unisce, aiuta la comprensione e la conoscenza, favorendo una cultura del rispetto alla quale educare i giovani».

Aggiungo: gli Special Olympics sono nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso da un’idea di Eunice Kennedy Shriver, decisa a modificare la considerazione che si aveva delle persone con disabilità intellettiva e consapevole che molti bambini non avevano uno spazio in cui giocare. Nacque tutto da un campo estivo nel cortile di casa sua. Lei concentrò l’attenzione su ciò che quei bambini con disabilità sapevano fare e non su quello che non riuscivano a fare.

Conclusioni

I ragazzi che praticano queste attività sono chiamati ragazzi speciali. E io mi sono adeguato a una forma che non era dispregiativa, non era offensiva. Mi viene facile pensare che molti abbiano scelto questo aggettivo anche al di fuori dell’ambito Special Olympics,

Ѐ vero la lingua evolve, ciò che oggi si può dire domani non sarà più ammesso. Vale anche per persone con disabilità, statene certi (ve lo siete ricordati?). Quello che serve è buon senso, da una parte e dall’altra, perché a furia di dirci come dobbiamo parlare e come non dobbiamo parlare nascono quelli del mondo al contrario.

Comunque, sono a disposizione: ditemi come devo parlare!

Giuseppe Giuliani

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