Una cura per restituire la vista ai pazienti con Sindrome di Usher?

Applicata a Napoli una terapia genica sperimentale in grado di cambiare il corso della Sindrome di Usher. Alla Clinica oculistica dell’Università Vanvitelli di Napoli è stato eseguito il primo intervento di questo genere a luglio. Ebbene, a distanza di due mesi il paziente non ha mostrato effetti collaterali ed è il primo passaggio importante in questa fase di sperimentazione. La Sindrome di Usher di tipo 1B è una malattia rara di tipo ereditario che colpisce circa 20mila persone al mondo, ma il dato è approssimato per difetto, perché occorrono test specifici per individuarla. Comporta una retinite pigmentosa che porta alla perdita progressiva della vista, associata a sordità. Per la sordità esiste la possibilità di intervento durante l’infanzia, mentre per la cecità sinora non c’erano speranze.

La sindrome di Usher 1B è dovuta alla mutazione di un gene, ma l’intervento tramite terapia genica era impossibile, perché il gene “nuovo e sano” è troppo grande per essere trasportato dai virus modificati e utilizzati per questo scopo. Che fare allora? A questo punto, è entrato in campo l’Istituto Telethon di genetica e medicina di Pozzuoli (Tigem) con una tecnologia che consente di dividere il gene e trasferirlo. Il gene si ricompone poi, una volta arrivato all’interno della cellula.

In questo modo, l’equipe diretta da Francesca Simonelli, professore ordinario di Oftalmologia e direttore dell’Unità Oculistica del Vanvitelli, ha potuto somministrare la terapia al paziente.

È ancora troppo presto per esprimere giudizi sulla cura che si sta sperimentando: lo studio denominato Luce-1 va avanti da anni e coinvolge una cinquantina di pazienti europei dei quali si è studiata la storia della malattia e si è poi modulata una possibile terapia genica.

La sperimentazione prevede che 15 pazienti ricevano tre dosaggi diversi per valutare quale sia più efficace e allo stesso tempo privo di effetti collaterali.

Per quanto riguarda la tecnica messa a punto al Tigem, potrebbe risultare utile anche per molte altre malattie genetiche, perché consente di superare la difficoltà sinora incontrata per proporre terapie geniche, quella, appunto, delle dimensioni del gene da trasportare.

Giuseppe Giuliani

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