“L’ora di greco” (2009) di Han Kang
“L’ora di greco” (2009) di Han Kang, la sud-coreana premio Nobel per la letteratura 2024, è un romanzo denso, stratificato, mai scontato, proteso verso l’universale, ma anche una stimolante riflessione sul linguaggio, sulla nostra capacità di comunicare e di entrare in relazione.
Si apre con una riflessione su Borges e la sua cecità, la “spada” che lo ha diviso dal mondo: in una Seul umida e afosa, fatta di immagini e suoni diradati, un professore di greco antico che sta perdendo la vista e l’allieva che non può parlare fluttuano nella memoria delle rispettive tormentate esistenze.
Non sono più giovani, non sono belli e non hanno un nome. Lui è tornato da poco dalla Germania e, aspettando che il mondo scompaia nel buio, insegnerà in un istituto privato. Lei vuole riconnettersi con il figlio affidato al padre e ha deciso di studiare una lingua che non conosce, sperando che questo la aiuti a parlare di nuovo, come già era accaduto con il francese.
L’autrice ce li fa conoscere alternando le loro solitarie incursioni nella memoria. Un viaggio in prima persona quello di lui, indotto dall’incipiente perdita della vista a ripiegarsi sui ricordi, popolati da immagini più nitide di quelle che riesce a cogliere nel presente. In terza quello di lei che, non riuscendo a usare la voce, ha perso la capacità di riconoscersi e di dare significato, che spera di recuperare attraverso lo studio del greco antico.
Si studiano da lontano: l’uomo crede che lei sia sordomuta come il suo primo amore, la donna non sa che lui è quasi cieco, coglie le emozioni nelle linee del viso di lui e riconosce la sua stessa solitudine e la tristezza.
Nelle lezioni di greco, le cui parole, per via dell’estrema flessibilità, esprimono concetti complessi e precisi, s’insinua lentamente Platone che “aveva di fronte a sé il tramonto non solo della sua lingua, ma di tutto il suo mondo”. E la lingua è pretesto per interrogarsi sul mito, la storia, la politica, la comunicabilità e la (in)capacità di raggiungere l’altro. È stimolo alla riflessione sulla relazione tra sensi, percezioni e forme del mondo, diventa spazio di scambio, crea le condizioni per superare le distanze, incrina le barriere delle rispettive fragilità.
Han Kang tocca temi attuali, senza concedere spazio alla banalità. Separazione, dolore, morte, lutto, rancore, paura, rabbia, impotenza si alternano e raccontano un’umanità smarrita. La prosa è precisa ed elegante, distilla le informazioni, tratteggia, suggerisce, sospende e riprende, quasi danzando, sino a rarefarsi in versi e aprirsi alla speranza.
Da leggere. E rileggere.
Antonella Orrù