Disabilità: riflessioni su linguaggio e società
Sono una giornalista con disabilità visiva e spesso mi trovo a trattare la tematica dell’inclusione, argomento che mi tocca in prima persona da quando, nel 2012, ho cominciato a perdere la vista fino a diventare completamente cieca nel 2019. Come per altri temi urgenti e inderogabili quali la sostenibilità, l’ambiente e le questioni di genere, la parola inclusione e tutto ciò che ne deriva sono spesso (purtroppo) soltanto termini con cui lavarsi la coscienza.
Tuttavia, e questo è a nostro avviso positivo, il fatto stesso che se ne parli è già un buon punto di partenza, nonostante quello di arrivo appaia ancora estremamente lontano.
Per questo, dopo aver ascoltato alcune considerazioni dell’attivista e collega mantovana Valentina Tomirotti durante il seminario tenutosi giovedì 14 novembre 2024 nella sede cagliaritana di Ierfop Onlus, sono nate alcune riflessioni su come si possa realizzare una società orientata all’inclusione attraverso un reale cambio di prospettiva.
Guardare oltre la disabilità
Secondo l’attivista mantovana, serve un cambio di paradigma, una presa di coscienza che vada oltre il semplice sguardo e si focalizzi sull’individuo piuttosto che sulla disabilità. Tuttavia, mettere in secondo piano la disabilità, fingere quasi che non ci sia, non rischia di ottenere l’effetto contrario? Se da una parte è vero che la disabilità non ci identifica come individui, se è vero che siamo prima di tutto persone e persone con disabilità (non disabili o persone disabili) , perché la disabilità è qualcosa che ci caratterizza, non è altrettanto vero che metterla da parte rischia di diventare un ostacolo all’inclusione, in una ricerca quasi forzata di “normalizzazione”? Dove va a finire la diversità come risorsa, come punto di forza (e qui ci viene in aiuto la biologia con l’importanza della biodiversità nell’evoluzione delle specie)? Non siamo forse noi persone con disabilità le prime fautrici di questo cambiamento, con una presa di coscienza dei nostri punti di forza e di debolezza derivanti dalla disabilità stessa, in modo da mettere in luce i primi e di aggirare in qualche modo i secondi? Se sono una giornalista e sono cieca, personalmente voglio che in me si vedano entrambi gli aspetti e che gli venga dato lo stesso peso. Perché la cecità fa parte di me e senza la cecità, molto probabilmente, non sarei mai arrivata a fare questo lavoro, né tantomeno lo farei come lo faccio, ovvero con l’ausilio di software per la lettura dello schermo ecc. Ho bisogno che si tenga conto della mia disabilità, proprio per essere messa in condizione di svolgere la mia professione al meglio. E da qui scaturisce un’altra riflessione.
Incontrarsi a metà strada
La collega fa notare un altro aspetto fondamentale: la possibilità o l’impossibilità di effettuare delle scelte per la propria autonomia e cita come esempio un episodio in un hotel. Mentre lei, che si muove con l’ausilio di una carrozzina, aspetta venti minuti perché gli ascensori sono pieni, persone non a mobilità ridotta scelgono per lei, perché occupano gli ascensori anziché fare le scale. Ma è realmente così? Sono realmente gli occupanti inconsapevoli degli ascensori a impedirle di recarsi dabbasso, o è il fatto che mancano le rampe nelle scale, o ancora il fatto che, come fa poi notare, ci dovrebbe essere un pulsante di chiamata prioritaria? E ancora: data l’impossibilità di fare le scale per chi ha problemi di mobilità, perché non scegliere una stanza al piano terra? Perché non chiedere agli hotel di riservare un certo numero di stanze proprio a questo scopo? È un attimo, un’emergenza, un guasto, e l’ascensore non funziona. Cosa fare?
Personalmente, se non posso fare le scale, cerco proprio di evitarle. Conosco i miei limiti e cerco di aggirarli. Perché lasciare che altri scelgano per noi quando possiamo essere noi a scegliere? Perché incolpare chi sceglie l’ascensore e dare per scontato che lo faccia per pigrizia? Magari, tra quelle persone, ci sono anziani, persone con disabilità visiva, cardiopatici, o anche semplicemente persone che potendo scegliere, scelgono. Perché non metterci nella condizione di fare altrettanto? Non parlo di scelta obbligata. Se proprio lo si desidera, si può prendere anche un attico. Dopo, però, si devono accettare gli inconvenienti derivanti da tale scelta. È così per tutti, con disabilità o senza.
Sono cieca. Nessuno mi impedisce di salire in macchina e immettermi in strada. Poi, ciò che accade dopo, sono affari miei. Stesso discorso se fossi vedente, ma non avessi la patente.
Come approcciare la disabilità
Altro esempio che fa nascere molte domande è il modo in cui gli altri dovrebbero relazionarsi con noi persone con disabilità. Dovrebbero guardarci? Non dovrebbero guardarci? Dovrebbero toccarci? Non dovrebbero toccarci? Dovrebbero essere curiosi o girare la faccia?
Probabilmente la risposta cambia in base al momento storico nel quale viene posta. Al momento, e fino a quando la disabilità non sarà qualcosa di realmente introiettato dalla società, a mio avviso è bene che le persone facciano domande, per quanto talvolta risulti sfiancante dover rispondere. D’altra parte, nessuno ci obbliga a farlo.
Ma se un bambino chiede perché una persona usa una carrozzina o un bastone bianco, non sarebbe più giusto spiegargli con naturalezza la funzione dei due ausili? Tanto più che, come fa notare Tomirotti, può capitare a tutti prima o poi di doversene servire.
A sette anni non avrei mai pensato di dover usare il bastone bianco. E avendolo sempre associato a qualcosa di negativo, a qualcosa che fa paura come la cecità, ora ho un rifiuto per questo strumento. Perché di questo si tratta: strumenti, ausili, accessori il cui scopo è renderci il più autonomi possibile. Forse, se da bambina qualcuno mi avesse detto: “quel bastone è uno strumento che permette alle persone cieche di muoversi in autonomia. Pensa quanto è importante. È come l’automobile. Noi la usiamo per fare lunghi viaggi che altrimenti non potremmo fare. Il bastone serve per fare viaggi più corti, ma senza quello una persona che non vede non potrebbe farlo». Probabilmente, ora avrei meno lavoro da fare con lo psicologo.
Dunque, se vogliamo sfatare qualche mito, sfatiamo quello della persona con disabilità che non vuole essere guardata, toccata o bombardata di domande. Non si dovrebbe fare di tutta l’erba un fascio. C’è a chi fa piacere e a chi no e questo proprio perché, non ci stancheremo mai di dirlo, siamo tutti persone e quindi tutti diversi e diverse. Alcuni di noi amano i bambini, altri non li sopportano. Ad alcuni fa piacere rispondere a certe domande, ad altri no, altri ancora cambiano idea in base all’umore. È normale. È naturale.
Siamo tutti esseri umani. Con o senza disabilità.
Roberta Gatto